Parole e fatti

«Il Socialista», a. III, n. 1, 1° gennaio 1946, p. 1.

PAROLE E FATTI

Sarebbe questo il tempo in cui, secondo l’autorevole opinione riportata nell’articolo di fondo di «Battaglie Liberali» di lunedí scorso, i liberali debbono essere «un po’ socialisti» e i socialisti «un po’ liberali».

Noi che, malgrado il nostro atteggiamento disilluso e consapevole, mostriamo sempre simpatia e attenzione per ogni tentativo di uomini di altri campi verso concezioni a noi piú vicine, e che siamo sempre pronti a riconoscere l’animo e le buone intenzioni oltre gli schemi e le etichette di partito, non possiamo però non avvertire l’ingenuità, per lo meno, di un annacquamento cosí curioso.

Non comprendiamo come due dottrine e due fedi diverse possano non diremo contemperarsi nelle loro supreme esigenze ideali, ma prestarsi scambievolmente «un po’» del loro spirito essenziale, «un po’» di ciò che le distingue e le contrappone. Perché una concezione ancorata ad una dottrina economica che ammette lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la proprietà capitalistica non vediamo cosa potrebbe accettare da una concezione che si basa essenzialmente sull’abolizione del capitalismo e sulla socializzazione dei mezzi di produzione. Perché una volta ammessa come legittima la proprietà delle industrie e della terra, ogni limitazione nella quantità è illusoria e viene inevitabilmente battuta dalla forza stessa del capitale che tende ad aumentarsi, a fortificarsi, a strutturare coerentemente tutta una società, tutto un modo di vivere, tutto un complesso di leggi, di educazione, di mentalità. Certo sappiamo come un capitalismo energico e vitale sia capace di affiancarsi riforme, miglioramenti, dotato di largo margine di soddisfazioni piú o meno corrette per la classe lavoratrice, ma sappiamo anche che nei momenti inevitabili delle crisi, che quel sistema è condannato ad avere sempre piú frequenti e sempre piú gravi e che sfociano nelle guerre imperialistiche per la conquista dei mercati, la nuda realtà del contrasto fra lavoratori e detentori del capitale ricompare con sempre maggiore violenza e che le belle parole, le formule sapienti, le elaborazioni astute dei tecnici, i compromessi spesso “generosi” degli uomini della cultura liberale si vanificano di fronte ai fatti: e, come diceva il Baretti, i fatti son maschi e le parole femmine!

Ma se c’è un dissidio insanabile fra la concezione liberale nella sua classica struttura capitalistica e quella genuinamente socialista, e se la formula presentata nella strana forma dell’«un po’» si dimostra per lo meno ingenua e piú profondamente ingannevole e perfino rovinosa come tutti i palliativi che vengono escogitati per addolcire una cruda realtà, noi siamo anche convinti che vi è un altro modo per far vivere quell’esigenza di libertà che indubbiamente il liberalismo al suo nascere, in contrasto con l’assolutismo e con i residui feudali, portava e, forse, porta negli spiriti piú pensosi che possono rifarsi alla cultura nata su quel momento storico.

È un’esigenza che ci parla dai libri di Tocqueville come dalle pagine dell’Alfieri, come dalla carta dei diritti dell’uomo della rivoluzione francese e che ci dice come ogni società, ogni forma economica, ogni struttura statale deve servire all’uomo, all’uomo concreto, alla sua possibilità di sviluppo, di formazione, di affermazione. È un’esigenza che solo un rozzo impulso momentaneo potrebbe farci scordare e che dovrebbe essere ben viva in tutti coloro che lottarono contro le forme dell’oppressione fascista e nazista.

Ebbene questa esigenza di libertà è passata nella concezione socialista nel momento stesso che essa si è presentata come liberazione dell’uomo da una potenza economica che rende continuamente insicura la base stessa di ogni libertà: la possibilità di vivere, di educarsi, di far vivere e di educare i propri figli. Quando Marx lanciava il suo Manifesto faceva opera profondissima di libertà e mentre invitava i proletari di tutto il mondo a spezzare le catene che li assimilavano alle bestie in una vita senza gioia e senza respiro, a costruire una società senza classi, senza padroni e senza servi, intravedeva chiaramente un mondo in cui secondo la sua frase immortale: «il libero sviluppo di ognuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti».

Il socialismo, e in particolare il partito socialista come si è venuto conformando in Italia e come certamente saprà costruirsi ovunque, ha calato questa frase del piú grande dei socialisti in un metodo, in un’ideologia articolata, aderente alle situazioni concrete, e soprattutto in una mentalità socialista a cui nessuno potrà rimproverare scarso amore per la libertà, per la tolleranza, per il rispetto delle persone viventi, dei valori umani.

Non dunque «un po’ socialisti», ma integralmente e rivoluzionariamente socialisti devono divenire quegli uomini che sentono amore per la libertà e che vogliono portare in un campo concreto ed attivo questo amore che, rimasto in una sfera intellettuale rimarrebbe platonico e astratto, e che calato nel sistema capitalistico verrebbe già inizialmente a morire in un mondo spietato, che di tutto si cura tranne che del rispetto degli uomini nella loro ansia di vita libera, di autogoverno, di spirito internazionale e pacifico.

Come sarebbe strano dire che per seguire il Vangelo bisogna essere «un po’ cristiani», che per amare bisogna essere «un po’ innamorati», che per combattere bisogna essere «un po’ coraggiosi», cosí è assurdo il dire che per salvare la libertà degli uomini nella società bisogna essere «un po’ socialisti».

Dove si lotta giorno per giorno a favore del popolo e degli sfruttati (e in questo campo il Partito Socialista lotta da decenni), dove si costruisce la fratellanza e una comprensione democratica, dove si formano gli strumenti per una vita in cui ognuno si senta ugualmente padrone di se stesso senza dipendere da altri, là si difende in concreto, e non a parole, il valore per cui, nel 1924, Matteotti parlando in nome della libertà del popolo italiano, quando altri tacquero, cadde proprio per essere interamente socialista.